I racconti di nonna Giuseppa: 1° puntata con “La donna, a fimmina”

La Sicilia è un territorio ricco di storia, ma al giorno d’oggi pochi sono i nonni che la tramandano.

Ecco perché da stasera in poi, puntata dopo puntata, andremo a riscoprire insieme le Antiche tradizioni della nostra bella Sicilia, trattando man mano temi diversi. Ma bando alle ciance, e cominciamo subito a parlare del primo tema che apre la nostra rubrica:

“La donna, a fimmina”

Sin dall’antichità, a fimmina aveva un ruolo importante sia nell’ambito familiare che nell’ambito lavorativo: la donna era figghia, matri e doveva rispettare prima il padre e poi u maritu, il quale aveva il potere, ma l’economia familiare era gestita…dalla donna!

La donna generava figli e li cresceva, occupandosi della loro educazione familiare.

La nascita di una figlia femmina, poi, veniva considerata una disgrazia, perché una bambina non poteva dare una mano a lavorare nei campi, né portare avanti il cognome di una famiglia. Queste piccole donne, però erano “utili” sotto un altro punto di vista: la procreazione.

Di fatto, le madri di quei tempi si preoccupavano di poter maritare presto queste figlie, per permettere loro di essere utili alla società procreando tanti figli maschi, braccia utili nei campi. Anche il matrimonio però non era una via felice per loro, poiché doveva aspettare una richiesta di matrimonio da parte degli uomini, e non poteva scegliere, finendo a volte col maritarsi con uomini rozzi.

E l’uomo era sempre superiore, comandava, quindi il matrimonio risultava a volte una tortura non indifferente, dato che nella cultura patriarcale la donna rappresentava un oggetto di possesso maschile.

Ma nel corso della storia, comunque, la donna siciliana è sempre stata capace di ribellarsi e di lottare per assicurare i beni di prima necessità alla propria famiglia. Di fatto, fin dagli anni ’60, si è sempre impegnata per avere riconosciuta l’uguaglianza di trattamento economico e giuridico rispetto all’uomo nel campo del lavoro, per sottrarsi al prepotere maschile. Tra queste donne ricordiamo:

Franca Viola, di Alcamo, che nel 1968, appena diciottenne, sostenuta dalla sua famiglia, rifiutò un matrimonio riparatore, diventando un simbolo della crescita civile dell’Italia nel secondo dopoguerra e dell’emancipazione delle donne italiane.

Maria Rosa Vitale, che nel 1939, a Cinisi, alla viglia della guerra e in piena era fascista, venne rapita da un ragazzotto che lavorava nelle terre con suo padre, aiutato dai suoi fratelli, finendo poi per denunciare il fatto, sostenuta dal padre che sfidò il paese e la vergogna abbattutasi sulla figlia e sulla sua famiglia.

Girolama Benenati, oggi 82enne, che denunciò l’uomo che l’aveva sequestrata, subendo lo stesso destino di ingiurie e offese da parte di paesani che le davano della svergognata, della poco di buono e dell’infame. Girolama dopo il processo ha scelto il silenzio e la solitudine, non si è mai fatta una famiglia.

Ancora oggi, a testimonianza della grande dedizione della donna alla famiglia, è possibile trovare nei vicoli del borgo alcune donne che tessono con il “fuso” e la “conocchia”, strumenti dell’antica arte della filatura, e in Sicilia, infatti, era usanza che gli antichi arnesi venissero donati dai fidanzati alle future spose.

La donna, poi, non riusciva a continuare gli studi, proprio perché la sua natura era quella di moglie e madre, e sin da bambina doveva badare alla casa.

Se si riflette un po’, la donna era indispensabile: senza di lei, l’uomo impegnato ai lavori nei campi non avrebbe mai trovato una famiglia ben salda e sempre mantenuta nell’onore e nell’educazione.

Quindi, urrà alle donne, ora e sempre!

 

 

 

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